Lavori in Corso


Partiamo dalla dispensa.

Tonno. Spaghetti, biscotti, Tonno. Creackers, riso, fusilli, tonno. Fette biscottate  e tonno. Nutella.

            E poi caffettiere, piatti da lavare, tazze, un grinder, bottiglie di vino (sempre vuote), scatole e scatole di tisane, pacchi di caffè posacenere trasbordanti di cartacce, bicchieri con mozziconi di sigaretta affogati, cartine, tazzine da caffè vuote, tabacco, e centinaia di filtri sparsi sul pavimento.
Una felpa, due borse, mazzi di chiavi, tazzine di caffè piene, fogli disegnati scritti e scarabocchiati, uno stereo, lettori mp3 pronti all’uso e le matitine ikea.
Candele, hard-disk, una ciabatta, smalti, bicchieri sporchi di caffè, cartoni del latte, cotone, acetone, pinzette, un tavolo tondo con i cerchi di caffè, un vecchio lettino e una decina sedie tutte diverse tra loro per genere dimensione e colore.


            Esistono differenti teorie sulle proprietà fisiche degli spazi comuni di un appartamento abitato da studenti, la più attendibile è quella di un certo Carlo Maria Solgietti, noto fuoricorso di Firenze. Secondo il Solgietti, infatti, la cucina diventerebbe in qualche modo centro gravitazionale dell’appartamento, attirando con forza, persone animali e cose presenti nel resto dell’abitazione. Un’altra teoria dello studioso, poi confermata dalla famosa ordinologa A. C. nel volume “Dell’ordine e dei lordi”, e l’ormai pluricitata “vita propria”, qui il Solgietti imputa agli oggetti stessi la causa del disordine: questi striscerebbero e si sparpaglierebbero spontaneamente per la casa; A. C. analizzando la vita degli abiti degli studenti, ha fotografato diverse stanze in alcuni momenti della giornata: dopo soli 15 minuti gli abiti escono violentemente dall’armadio e si scaglierebbero sulla sedia, sul letto e talvolta sul pavimento. Non è stato riscontrato alcun movimento degli stessi durante il sonno degli umanoidi.


Capitolo I


             Maria Sole Comida indossava la sua giacca preferita, come sempre. Era un giubbetto di panno bordeaux. Le piaceva per via dell’ampio cappuccio a punta, per le rifiniture viola, ma soprattutto per i quattro bottoni che dalla spalla scendevano obliqui fin sotto l’ombelico: erano di legno, erano grandi, ed erano meravigliosamente gialli. Entrando dal cancello scostò il cappuccio, si aggiustò gli occhiali da sole e diede uno sguardo al cellulare. Il display non mentiva: era in ritardo, come sempre.
Al giardino botanico di Firenze, ogni Aprile, si teneva la “Fiera del Fiore”, e al giardino botanico di Firenze, ogni anno, Maria Sole e Marco passavano il pomeriggio seduti sul prato fumando Lucky Strike e sparlando di uomini. Nulla di diverso da ciò che facevano di solito, ma davanti alle bancarelle colorate e sotto il sole di mezzogiorno, i loro pensieri profumavano d’estate.

Marco era stato la prima persona conosciuta, lei doveva trasferirsi da Venezia e cercava casa, lui viveva a Firenze già da un po’ e cercava una nuova coinquilina. Inizialmente ebbero anche una storia: entrambi amavano il teatro, la letteratura (ma quella buona, quella di Hesse) ed entrambi avevano un forte senso dell’umorismo; col tempo capirono però che entrambi amavano gli uomini, e così finì quella piccola passione ed iniziò la grande amicizia.
Sole si mise a sedere sul prato. In quanto a ritardi Marco la batteva proprio, era abituata ad aspettarlo, ma rimanere da sola tra gli estranei la faceva sempre sentire a disagio, così si accese una sigaretta per rilassarsi nell’attesa.

Gli occhiali erano nuovamente scivolati sotto la gobba del naso e dietro la frangia castana si intravedevano due piccoli occhi scuri, quasi neri, che fissavano nervosamente il cancello. Con un gesto automatico scostò la frangia, si levò gli occhiali, e sorridendo si legò i capelli: Marco era finalmente arrivato. Dopo una ramanzina e qualche giro tra vasi, fiori e venditori insistenti, tornarono a sedersi sul prato. Era da un po’ che non facevano una lunga chiacchierata, loro due, soli, così giocando con i petali di una grossa gerbera Sole raccontò del suo ennesimo fallimento d’amore.

La dinamica era sempre quella e si risolveva in circa tre mesi.
  • 1° mese: corteggiamento. Lui la ama tantissimo e la chiama in continuazione; lei non molto è convinta e risponde raramente.
  • 2° e 3° mese: è amore. Lui la ama tantissimo, dice, ma la chiama sempre meno; lei lo ama tantissimo e lo chiama sempre più. Progettano un piccolo viaggio e magari qualche concerto.
  • Allo scadere del terzo mese la prova: lei non gli telefona per una o due settimane, tanto per capire se è una sua sensazione o davvero la passione sta precipitando. Ovviamente non è mai una sensazione e dopo una serie di bidoni, lui, svanisce nel nulla.

Lui, questa volta, si chiamava Riccardo, studiava filosofia e amava leggerle i libri a voce alta. Durante il primo mese le aveva scritto perfino qualche poesia, guadagnandosi il soprannome di “Dante dei poveri”. Poi era svanito nel nulla, come tanti altri avevano fatto. 

- Ma completamente scomparso? E non lo hai più sentito?- Maria Sole non rispondeva- Secondo te che fine ha fatto?- 

- Boh! Sì,no, a questo punto credo ci sia un buco spazio temporale, sai qualcosa tipo un buco nero, lì finiscono elastici, calzini, soldi e i ragazzi.-

- Ma dal niente è scomparso?-

-
 NEL niente. Sì, no, è una cosa lenta, graduale. Vengono lentamente risucchiati. – con la mano finse di risucchiare il malcapitato fiore. Poi levò l’elastico viola che stringeva i capelli in una lunga coda, lo fissò per un po’, con malinconia: era quello che aveva comprato insieme a Riccardo; e mostrandolo a esempio riprese: – Sì, no, Esattamente come gli elastici, hai presente? prima di perderli definitivamente li ritrovi sotto il letto, in borsa, in doccia e poi più nulla... ecco sì, però quella dei calzini è più brusca. Dev’essere la lavatrice!-

Marco la assecondava divertito: -  Magari è la lavatrice il passaggio, la chiave di tutto.- 

Sole balzò in piedi -Ma certo!!- e si rifece la coda sorridendo - Dai, Dai, rifammi la domanda. Rifalla.-

- Occhei, “Ma secondo te che fine ha fatto?”-

- Credo sia caduto in lavatrice-

Entrambi scoppiarono in una grossa risata, tanto che alcune persone si voltarono per vedere cosa stesse accadendo, e magari ridere anche loro. 

- Almeno ora sei certa che è, o era, una persona pulita… è una cosa positiva, no?- si tirò su anche lui, tenendo la sua gerbera in mano.

-Come no! “Un acquario in uno scolapasta” è la metafora adatta per la mia vita sentimentale. Va bon, te sta sera che fai?-

-Esco con l’oculista… a meno che non decida di fare il bucato...-

Ridendo uscirono dal giardino botanico e parlottando di vestiti si avviarono verso casa. 

Capitolo 2.0 Nicola 


A Nicola piaceva dormire così, con le braccia incrociate sotto il corpo e la guancia che premeva contro il cuscino. Quando si addormentava in un’altra posizione, sognava di precipitare, di scivolare o di levitare nel vuoto; gli amici che l’avevano visto dormire sostenevano che fosse specchio del suo carattere: insicuro, introverso e un po’ sospettoso; lui diceva che era tutta colpa di un vecchio incidente d’auto, a causa del colpo di frusta soffriva di cervicali e quindi riusciva a dormire solo a pancia in giù, ma delle braccia incrociate sotto il corpo e delle gambe serrate non ne parlava proprio.

Stava precipitando ormai da un po’, aveva visto David Bowie che dietro una finestra teneva un concerto insieme ai Misfits, aveva incrociato lo sguardo di Alice e del coniglio bianco che disperato cercava il suo orologio, e ora stava atterrando sulla pista de “La febbre del sabato sera” e con John Travolta ballava “Dancing Queen”. A loro si era unito Il Coniglio Bianco che con un rinnovato sorriso ballava seguendo gli squilli del suo orologio.
Drin… Drin… Drin
Quando Nicola aprì gli occhi provò a muoversi e incominciò a tremare, aveva bevuto decisamente troppo ieri notte. Nella testa c’era una gran confusione, i Misfits pestavano all’impazzata dietro ai bulbi oculari, David Bowie rimbombava nella sua testa e dentro le sue orecchie gli ABBA erano accompagnati dal quel insistente squillo.
Con uno scatto si inginocchiò sul letto: il suo telefono suonava all’impazzata da qualche parte oltre la porta, non era la sua camera, non era vestito e non era solo. A dire il vero, non era neanche del tutto certo di essere sveglio. Si premette forte gli occhi con i palmi delle mani e come fosse un mantra prese a ripetersi “Checosadevofare checosadevofare checosadevofare” capì di essere a casa di Marco e con una serie di flash rivide la sera prima. 
C’era una bottiglia di vino a casa di Guido, qualche giro di shot all’Australiano, una birra dal Pakistano, qualche cocktail che non sapeva bene dove sistemare, e un altro shot allo Yag. Poi c’erano luci, musica e un bacio, ed era sicuramente di Marco. In fondo sapevano entrambi che sarebbe accaduto, e lo sapevano già da un po’. Poi c’era la strada, Marco che infilava la chiave nella toppa e gli faceva cenno di tacere, un lungo corridoio con delle porte chiuse, il letto, e loro due. Poi c’era il Coniglio Bianco e un telefono che suonava all’impazzata in fondo il corridoio.

Spostò le mani tra i capelli, tutto ciò che riusciva a pensare era: “Checosadevofare checosadevofare checosadevofare”. Svegliò Marco.

- Checosadevofare?? Marco, il cellulare! La giacca, Marco svegliati, Marco che faccio?? Il telefono, Marco!!-
L’amico era immobile e lo studiava come fosse un quadro da esposizione, molto lentamente guardò l’ora, disse qualcosa a proposito dei vestiti, della luce, ma Nicola non riusciva proprio ad ascoltarlo, nella sua testa c’era solo lo squillo del telefono, che si faceva sempre più forte e sempre più insistente. Avrebbe di certo svegliato tutta la casa, le inquiline di Marco sarebbero presto uscite dalle loro stanze e lo avrebbero additato a idiota per il resto dei suoi giorni. Si muoveva per la stanza, ogni tanto perdeva l’equilibrio e andava a sbattere contro qualcosa sussurrando improperi d’ogni genere. Come gli girava la testa.
Marco continuava a parlare di una luce, ma mica aveva tempo di starlo a sentire, lui; inciampando qua e là si diresse verso l’interruttore. Una fitta agli occhi, e luce fu.
Intanto il telefono aveva ripreso a suonare: era la sveglia di ogni mattina, quella che alle sei lo tormentava perché si sbrigasse per andare al lavoro. Faceva l’ottico a Firenze, proprio davanti a casa di Marco.
Mentre si vestiva infilandosi più o meno tutto ciò che trovava, si voltò verso il letto, Marco teneva la testa sotto il cuscino e si lamentava della luce e di aver bevuto troppo. Il telefono riprese per la terza volta a suonare, molto probabilmente tutti erano svegli e tutti stavano pensando che Nicola era un gran rompi palle, perché tutti sapevano che aveva passato la notte lì e nessuno  avrebbe mai più voluto vederlo; era in corso una tragedia in quella casa e il suo amico, invece di aiutarlo, restava come morto sul letto. Uscì dalla porta, corse verso l’attaccapanni, non aveva mai visto un corridoio così lungo in tutta la sua vita, come arrivò, quasi per dispetto, il telefono smise di suonare. Tornò in camera portando il cellulare in trionfo. Svestendosi contò tre magliette, una felpa, due paia di mutande e nessun pantalone, considerò che la confusione fa brutti scherzi. E anche l’alcool.

Si ricacciò nel letto, e abbracciò Marco che dormiva già, intanto il letto aveva ripreso a girare vorticosamente e stava precipitando nel vuoto.


Capitolo 2.1 Marco


Sete, sete, sete. Aveva un’incredibile sete.
Si muoveva a tentoni per la cucina, senza trovare nulla da bere. Un barattolo di Citrosodina. Vuoto. Un limone. Secco. Il cartone del latte. Avariato. Non conosceva quella casa, a dire il vero non sapeva proprio dove si trovasse, ma in quel momento aveva soltanto una priorità: bere; e così continuava nella sua spasmodica ricerca d’acqua. Aprendo il frigo trovò Ronaldino che con una chioma fluente palleggiava con alcuni amici in uno stadio. Non ebbe il tempo di avvicinarsi per vedere meglio chi stesse giocando, che i calciatori presero a picchiarsi selvaggiamente. Poi, nell’intervista Ronaldino spiegò che aveva alzato le mani solo perché gli amici lo prendevano in giro per via della sua adesione al giornale <<IlGiacinto>>, la nuova rivista dei soci ARCI e ARCI-gay, “…nata affinché vi sia una nuova collaborazione -spiegava il giocatore con un’innata parlantina-  e affinché diminuiscano le distanze create dall’omofobia, almeno tra i soci Arci”; per quel motivo i compagni di squadra da un po’ si divertivano a fare allusioni sulla sua sessualità, e in tutta risposta, lui, li menava.
Marco si trovava nuovamente in quella cucina e guardava la televisione posata sopra il frigorifero; nell’intervista Ronaldino teneva i capelli legati. Marco non sapeva bene di cosa stupirsi: il calciatore si era fatto crescere i capelli, sapeva usare i congiuntivi e scriveva in una rivista ARCI.
Del fatto che l’avesse trovato in un frigorifero, non se ne curò.
Mentre considerava che offendersi un motivo simile era un po’ una contraddizione, una spinta e una voce lo fecero trasalire.

O meglio, lo svegliarono proprio.

- Marco, il telefono! La giacca, Marco svegliati, Marco che faccio?? Il telefono. Marco-
Nicola era in ginocchio sopra le lenzuola, era pallido, lo fissava al buio con le mani tra i capelli; immobile ripeteva il suo nome ogni due parole.
Anche Marco era immobile, anche lui fissava Nicola nel buio e cercava di capire quale fosse il problema: esclusi i cavalieri dell’Apocalisse, il terremoto e la morte di Madonna, non riusciva proprio ad immaginare quale cosa terrificante causasse tutto quel panico.  Nel momento in cui cercò di muoversi per guardare l’ora, gli parve che il letto si capovolgesse, e una fitta alla testa frantumò con un gran frastuono ogni ricordo della sera precedente. Non sapeva bene il perché, ma il suo amico era lì che si agitava, ormai in piedi, farfugliando qualcosa su un telefono e sul fatto che così com’era non poteva uscire.

-Per andare dove? Sono le sei del mattino! In ogni caso, vestiti e vacci -
-…è appesa fuori, in entrata, non posso uscire così, non trovo i vestiti -

I ricordi di Marco si stavano ricomponendo, in ordine più o meno cronologico: c’era una bottiglia di vino a casa di Guido, qualche giro di shot all’Australiano, una birra dal Pakistano, qualche cocktail che non sapeva bene dove sistemare, e un altro shot allo Yag. Poi c’erano luci, musica e un bacio, ed era sicuramente di Nicola. In fondo sapevano entrambi che sarebbe accaduto, e lo sapevano già da un po’; quella uscita era stata organizzata apposta. Poi c’era la strada, la porta di casa, il lungo corridoio, le porte chiuse delle sue tre coinquiline, il letto, la Citrosodina, il limone secco e Ronaldino che si picchiava in un frigorifero. Poi c’era una spinta, il mal di testa, l’amico terrorizzato che si muoveva a tentoni nel buio e un telefono che suonava all’impazzata in fondo il corridoio.

-… ma perché non accendi la luce?- nessuna risposta – “accendi la luce!” ho detto-

Osservò Nicola che bisbigliava improperi e, ancora ubriaco, sbandava verso l’interruttore inciampando tra scarpe,  abiti, libri e una serie di tazze di chissà quante sere prima.
Una fitta agli occhi, e luce fu.
Marco lamentandosi cacciò la testa sotto il cuscino e ne approfittò per cercare di ricordare cosa era accaduto tra la fine del corridoio e il barattolo vuoto di Citrosodina. Sentì Nicola uscire dalla stanza, avrebbe tanto voluto chiedergli un bicchiere d’acqua, ma era troppo tardi. Intanto alla suoneria del telefono si era sostituita una delle canzoni che aveva ballato al locale la sera prima. Percepì appena Nicola che rientrava, spegneva la luce e si ricacciava nel suo letto.
Intanto la musica si faceva più forte, nel buio si accendevano le luci colorate e Marco ballava su un cubo di ghiaccio insieme a Madonna e a Nicola.
Sete, sete, sete. Aveva un’incredibile sete.